Mettere alla prova le fonti e scegliere strade non segnate: con questo metodo “hacker” la giornalista Carola Frediani diffonde i temi della cybersicurezza. Un affare che ci riguarda tutti.
Le guerre di rete sono una questione politica. È per questo che la giornalista Carola Frediani le ha messe al centro della sua vocazione per i progetti di grande impatto sociale. Specializzata in cybersicurezza e in storia moderna, Carola spazia dal passato al futuro in cerca di metodi nuovi per raccontare la realtà. Pur non definendosi un “hacker”, mostra uno spirito di innovazione capace di cambiare le regole del gioco, di scegliere mezzi non ovvi e di trovare soluzioni tecniche intelligenti. Anche in un settore umanistico come quello del giornalismo.
L’hacker guarda al futuro che corre veloce, ma sa farlo con lentezza. Un concetto che nasce nel pianeta hi-tech ma riguarda anche il mondo dell’informazione.
La newsletter “Guerre di rete”, fondata da Carola Frediani, ha ormai raggiunto i diecimila iscritti ed è sempre più un punto di riferimento per chi cerca informazioni affidabili sui temi della sicurezza informatica, oggi spesso oggetto di notizie che si sgonfiano nel giro di un giorno. Una questione politica che coinvolge i diritti umani e pone in prima linea le personalità più esposte: attivisti, giornalisti, dissidenti. Abbiamo intervistato Carola Frediani per capire quanto c’è di “hacker” in tutto questo.
Il tuo progetto “Guerre di rete” parla di cybersicurezza in modo accessibile. Perché credi che questo tema potrebbe coinvolgere anche i non addetti ai lavori?
Perché riguarda tutti. La maggior parte dei problemi di sicurezza e degli incidenti informatici che abbiamo visto negli ultimi anni hanno avuto ripercussioni sulle persone comuni. E sarà così sempre più spesso.
Tra le grandi sfide della cybersicurezza, qual è quella che ti sta più a cuore?
L’uso e abuso di alcuni di questi strumenti di attacco, per violare la privacy e la sicurezza personale di giornalisti e attivisti. È una tendenza crescente che va assolutamente denunciata e contrastata.
Mentre il vostro impegno volge verso la sicurezza e la trasparenza, forze contrarie spingono verso gli allarmismi e un attivismo estemporaneo sui social. Che cosa possono fare i giornalisti?
Possono fare cronaca di quello che succede, di quello che si sa e di quello che non si sa, mantenendo un alto grado di precisione. Possono offrire informazioni di contesto per stimolare l’interpretazione corretta dei fatti. Non tutti gli attacchi sono uguali, non tutti gli attaccanti sono degni di nota. Basta spiegarlo.
L’approccio dello “slow journalism” caratterizza il tuo metodo di lavoro. Di che si tratta?
Lo slow journalism evita di inseguire il rullo delle notizie quotidiane, l’hype dei titoli, la ricerca dei clic. Al contrario, si concentra su originalità (anche nella scelta delle priorità), approfondimento e capacità di dare profondità alle cose. Questa almeno è la mia definizione.
Non credo che esista innovazione senza studio, fatica, tempo, e prospettive diverse.
Che cosa ti ha portato a scegliere questo approccio?
Sono estremamente insoddisfatta ogni volta che apro un quotidiano online, specie su temi cyber. E non sono l’unica. Anche i miei partner di Cyber Saiyan e gli altri professionisti con cui abbiamo lanciato il sito Guerre di Rete la pensano allo stesso modo. Ma non ci piace lamentarci: preferiamo fare la nostra parte.
Un metodo “lento”, ma molto più innovativo di tante soluzioni lampo…
Beh, davvero si pensa di innovare qualcosa solo nutrendosi di notizie flash e lanci per i social media? Non credo che esista innovazione senza studio, fatica, tempo, e prospettive diverse.
“Hacker” è un termine diffuso in ambito informatico, ma noi di Mutiny crediamo che possa essere esteso anche ad altri settori… per esempio il giornalismo. Qual è la tua definizione di “hacker”?
Il termine è storicamente molto complesso. A me piace la sintesi che ne ha fatto una studiosa del settore come Gabriella Coleman, riprendendo altre definizioni: “Un hacker è un tecnologo con una propensione per il computing e un hack è una soluzione tecnica intelligente a cui si arriva con mezzi non ovvi”. Alla fine, i principi dell’etica hacker definiti da Steven Levy nel suo libro del 1984, “Hackers: Heroes of the Computer Revolution”, sono validi ancora oggi: difesa della libertà di informazione, sfiducia verso l’autorità, meritocrazia, e l’idea che i computer possano essere alla base di un mondo migliore.
Il termine “hacker” ha per molti una connotazione negativa. Che cosa ne pensi di questo punto di vista?
Purtroppo il termine “hacker” è usato da tempo anche per indicare alcune attività illegali. Non solo nel giornalismo, ma anche in pubblicazioni e report di settore. Tuttavia, le migliori testate tecniche americane sono già oltre: usano “hacker” in maniera neutra e tecnica, mai negativa, e lo inseriscono in un contesto che ne rende chiaro il senso.
E tu come utilizzi il termine “hacker” nella tua comunicazione?
Personalmente cerco di evitare di usare il termine per indicare cybercriminali, ma penso anche che sia importante indicare il contesto e sapere quanto il tuo pubblico sia consapevole del tema. Certamente con un pubblico generalista è importante distinguere, altrimenti passa l’idea sbagliata. Scrivere di questi temi resta comunque un terreno scivoloso. Come definire unità militari (o presunte tali) che fanno hacking di altissimo livello per conto di Stati? Hacker di Stato, hacker sponsorizzati da Stati sono le definizioni che si trovano in giro, assieme a quelle di APT (Advanced Persistent Threat, che non indica solo quello ovviamente).
Puoi darci qualche anticipazione sui vostri prossimi progetti?
Abbiamo lanciato di recente il sito Guerre di Rete: una bella comunità di autori, perché c’è bisogno di persone competenti e serie che scrivano di questi temi. E anche una comunità di lettori e sostenitori. Poi ci sono altre cose che bollono in pentola… ma è presto per parlarne.
Un’ultima domanda. Com’è nato il tuo interesse per questo settore?
Ho avuto sempre interesse per le intersezioni fra politica, società e Rete. E appena mi sono avvicinata a temi cyber, ho capito che erano tra quelli in cui questo impasto era il più interessante e sottovalutato.
Image courtesy of Guerre di Rete, Carola Frediani e Alessio Iacona